LA PSICOTERAPIA RELAZIONALE

La psicoanalisi relazionale si fonda sulla premessa antropologica secondo cui l’uomo è un essere eminentemente sociale e quindi culturale. Anziché ritenere che egli sia spinto da pulsioni costituzionalmente determinate in conflitto con le esigenze del vivere civile, come fa la psicoanalisi classica di origine freudiana, è convinta che l’essere umano sia mosso principalmente dal bisogno di preservare la continuità dei propri legami di attaccamento e le corrispettive immagini di sé sorte all’interno di quei legami. In altri termini, la mente, secondo la psicoanalisi relazionale, si va costruendo attraverso le relazioni significative che si avvicendano nella vita di ciascuno. Tali relazioni non si limitano, infatti, ad essere quelle reali con le persone in carne ed ossa, ma finiscono con il divenire relazioni interiorizzate, se importanti dal punto di vista affettivo: esse si trasformano, per così dire, in copioni, in matrici di modi di sentire, pensare e pensarsi che improntano variamente il nostro modo di approcciare il mondo nonché di intessere nuove relazioni. Per questo la storia che abbiamo alle spalle è così significativa: essa tende a riattualizzarsi continuamente perché l’esperienza vissuta diviene parte del nostro stesso modo di essere, di proporci agli altri e di continuare a fare esperienza della realtà.

La mente non è concepita come uni-personale, monadica, come nella psicoanalisi classica, ma come intrinsecamente relazionale. Ciò implica che oggetto dell’analisi non è tanto la mente del paziente, ma la relazione psicoanalitica stessa: l’analista non si ritiene esterno al campo di osservazione perché sa di partecipare ad esso e di influenzarlo, come di esserne influenzato. Ma è proprio il pieno coinvolgimento dello psicoanalista, la sua partecipazione emozionale, unita alla sua allenata capacità anche di auto-osservazione, che permette il cambiamento.

Si tratta di un cambio di paradigma, coerente, del resto, con quello verificatosi nelle scienze con il salto epistemologico dal paradigma positivistico ottocentesco a quello relativistico, verificatosi quando, nell’ambito della fisica, Heisemberg ha formulato il principio di indeterminazione, secondo il quale chi osserva modifica ciò che è osservato.