Il team del servizio:

dottoressa Claudia Aceto psicologa dell'età evolutiva


SERVIZIO DI PSICOTERAPIA PER L'ETA' EVOLUTIVA

Lo psicologo che si occupa di età evolutiva generalmente si occupa di bambini, adolescenti e dei loro genitori. E’ di fondamentale importanza l’apporto dei genitori per avere delle informazioni sul bambino: il suo sviluppo, il contesto in cui vive e le problematiche presenti; tutte queste informazioni sono di difficile reperimento dal bambino, soprattutto nel caso sia molto piccolo. Inoltre, a livello di consulenza e soprattutto se si intraprende un percorso di sostegno psicologico, è di fondamentale aiuto il coinvolgimento del genitore per evidenziare eventuali cambiamenti, disagi o progressi. Lo psicologo dell'età evolutiva si occupa anche di percorsi rivolti direttamente ai genitori che solitamente vengono definiti “sostegno alla genitorialità” utilizzati come uno spazio di approfondimento e riflessione sul ruolo del genitore. Importantissimo è, soprattutto nel campo dell'età evolutiva, la precocità dell'intervento: generalmente, prima un bambino viene preso in carico più in fretta potrà risolversi la problematica presente. Se, invece, un disturbo con esordio nella prima infanzia viene trascurato c'è il rischio che esso possa strutturarsi in modo stabile e sarà, perciò, decisamente più difficile aiutare il bimbo. Se si pensa a come i bambini imparino in fretta più sono piccoli, si potrà comprendere come l'intervento precoce sia la migliore strategia che un genitore possa adottare per aiutare il proprio figlio.

Gravidanza e parto

Aspetti emozionali: modificazioni psicologiche in gravidanza

“Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di una relazione … la cosa importante è che Io sono non significa nulla, se non c’è il presupposto che Io all’inizio sono insieme ad un altro essere umano”(Winnicott, 1964). I nove mesi di gestazione si accompagnano a cambiamenti graduali che riguardano il corpo e la mente nella loro complessità. Questo tempo, necessario alla maturazione e completo accrescimento fetale, è altresì necessario alla maturazione delle “competenze genitoriali” che sono alla base del legame madre-figlio. Se è vero che “madri non si nasce, ma si diventa” (Stern, 1998) è importante descrivere il processo maturativo, che durante la gravidanza raggiunge il culmine, che porta gradualmente la donna a potere diventare una madre. Questo processo maturativo riguarda lo sviluppo psichico femminile, coinvolgendo in modo particolare le relazioni stabilite nel corso della vita con le figure parentali, ma in modo particolare quelle di figlia con la propria madre. In “On becoming parents” (1977) Dinora Pines scriveva “Diventare genitori è presagito nel gioco e nella fantasia durante i primi anni di vita. Il desiderio di un figlio è presente prima che esista alcuna possibilità fisiologica di crearne uno. Desiderio di gravidanza e maternità non sempre coincidono … ci sono molte ragioni intrapsichiche che sottendono una gravidanza, che non hanno nulla a che fare con il desiderio di occuparsi e di accudire un bambino reale”. Appare di semplice comprensione la realtà che con il menarca il corpo di un’adolescente è pronto per accogliere dentro di sé una vita, ma che la maturazione affettiva non ha ancora raggiunto un livello che consenta adeguate capacità di occuparsi di un’altra persona diversa da sé. Dagli studi della psicoanalisi e della psicologia dell’età evolutiva emerge la centrale importanza, per la nascita del pensiero, delle prime relazioni affettive che il neonato stabilisce con la madre o con chi svolge funzione genitoriale. È proprio l’introiezione di queste esperienze, e del “nutrimento” che buoni scambi relazionali apportano, a consentire le basi delle future competenze interattive, comunicative e di pensiero dell’individuo. Lo sviluppo mentale trae quindi le sue basi dai primi momenti della vita, che come già descritto, devono possedere caratteristiche tali da fornire al neonato, totalmente dipendente e bisognoso di cure, quanto a lui necessario in termini di vita, non solo concreta, ma mentale. La capacità che dovrebbe consentire alla donna di entrare in contatto con emozioni e bisogni così primari, viene preparata da molto tempo. Si può dire che trae le origini dalla sua storia di relazioni e si può affermare con certezza che viene strutturata e consolidata nel corso dei nove mesi gestazionali. Un tempo non solo necessario, ma indispensabile. Indispensabile all’attesa, alla preparazione, alla costruzione di un immaginario che contempli “il bambino che verrà”, all’adattamento e accettazione del cambiamento, alla graduale costruzione del legame primario. Tale cambiamento riguarda non solo il piano fisico, ma quello di una realtà globale in cui troveranno posto la coppia, il lavoro, le relazioni sociali, nella realizzazione di un equilibrio che poggerà su elementi nuovi. Nel mondo della bambina, occuparsi di un bambino, rappresenta nel gioco la realizzazione di fantasie di identificazione con la propria madre, ove il bambino-bambola contiene aspetti di sé che riguardano la relazione di accudimento sperimentata nel corso dell’infanzia. “Giocare a fare la mamma” costituisce un momento importante nello sviluppo della bambina, assumendo, in rapporto alle dinamiche familiari, sfumature sempre diverse. La prima mestruazione segnala la realtà di un corpo di donna, come quello della madre, capace di generare e di contenere al proprio interno dei bambini. È ovvio che in questo contesto, il modo in cui il corpo fertile viene vissuto, risente delle caratteristiche del rapporto con la propria madre reale e con la femminilità nel senso più generale. Gli stessi cambiamenti fisici dell’adolescenza, che segnalano la maturità sessuale, possono essere vissuti in modo diverso in rapporto allo sviluppo della capacità di crescere e differenziarsi dalla propria madre diventando a propria volta donne e potenzialmente madri. Altresì importante è il ruolo rivestito dal padre nei confronti della figlia e dal padre nei confronti della madre; la coppia genitoriale assume posto essenziale, per come è stata vissuta, nel determinare vita sessuale e scelte relazionali della ragazza. “Nel desiderio di un figlio può prevalere il bisogno narcisistico di provare che il proprio corpo funziona come quello della propria madre o prevalere la disponibilità ad occuparsi e prendersicura di un bambino” (Pines, 1972). Lasciare quindi lo spazio necessario a che questa disponibilità evolva, maturi e si concretizzi dopo la nascita, realizza quella che possiamo chiamare“gravidanza psicologica”. Secondo alcuni autori questa, come creazione di uno spazio ove “poter pensare e tenere nella mente il bambino che verrà” inizia ancor prima del concepimento, nel periodo in cui una gravidanza è attesa e cercata. Al momento dell’accertamento della gravidanza molteplici sono i sentimenti e le emozioni sperimentate da una donna. Alla gioia si accostano timori, incertezze, senso di realizzazione della propria vita, paura di non farcela, timore di non possedere quello che comunemente viene chiamato “istinto materno” … I segnali del corpo confermano il cambiamento dallo stato psicologico precedente di figlia, che inevitabilmente riattiva, sul piano delle emozioni, tracce consapevoli e non, dell’esperienza con la propria madre. È proprio il riconoscimento e recupero di questa esperienza, in cui si è state, in un momento della propria vita, oggetto del pensiero e cure amorevoli di una madre, a consentire il reperimento dentro di sé della capacità di essere oggi, chi, a propria volta, potrà svolgere questa funzione nei confronti di un altro. L’avvicinamento al bambino, come oggetto di investimenti affettivi, è graduale e progressivo e si sviluppa accanto alla capacità della donna di avvicinamento e graduale “preoccupazione” per un altro essere diverso da sé. Possiamo pensare alla gravidanza, come da molti autori riferito, come a un’ulteriore “fisiologica crisi” nel percorso di crescita e maturazione. Una crisi necessaria all’abbandono di fasi precedenti e all’acquisizione di un nuovo stato nella vita. Le crisi sono legate ai cambiamenti, non sempre facili, e non sempre accettati. Questo momento, descritto dalla Pines come “uno dei più arricchenti stadi del ciclo di vita perché ci si sente capaci di creare vita” comporta inevitabilmente aspetti critici necessari al cambiamento. Sono però, in rapporto alle differenze individuali, le modalità di “entrata, superamento ed uscita dalla crisi” (Caplan, 1964) a determinare la possibilità di costruzione di quello che Stern (1998) ha descritto come “assetto materno”.I cambiamenti corporei diventano quindi, accompagnandolo,correlati necessari al cambiamento psicologico, con il quale si integrano. Segnalano il crescere, oltre che del bambino concreto,dell’immagine e del posto che questo bambino piano piano acquisisce nei pensieri della madre. La percezione dei movimenti fetali concretizza un momento importante di una realtà che è cambiata, l’esistenza di un feto che gradatamente la madre può conoscere, anche se solo nella propria fantasia. Progettare, immaginare il bambino ed i cambiamenti che “il terzo” apporterà nella vita, sono elementi importanti che segnalano la costruzione di un posto nella realtà futura della donna che, in una raggiunta maturità affettiva, potrà unire al suo ruolo quello, ormai acquisito, di madre. Il “bambino immaginario”, contenente aspetti di desideri, attese, timori, è prodotto dei sogni e delle fantasie; precede, ma facilita l’incontro con il bambino reale. Il bambino visto, toccato, sentito, sarà un bambino preconosciuto (Bion, 1962) già “visto” e sentito, immaginato con gli occhi della fantasia. Fiduciose aspettative e timori, stato d’animo tranquillo o pervaso da preoccupazioni, così come “stato di benessere” o accentuazione di disturbi tipici della gravidanza, sono legati al tipo e alla qualità del percorso psicologico che ciascuna donna può, in rapporto alla propria esperienza passata ed attuale, affrontare. Il percorso psicologico della gravidanza, i suoi aspetti emozionali, riguardano il lento e delicato processo di diventare madri. “Madri sufficientemente buone”, come scriveva Winnicott, e non perfette, madri insicure, madri capaci di “preoccuparsi” (da to take care =“prendersi cura di”), grazie al “lavoro” anticipatorio ed all’attesa dei nove mesi, che le ha rese in grado di “sentire” dentro di sé la possibilità di essere, per il proprio figlio, una buona madre.

Da 0 a 3 anni

I disturbi del sonno 

I risvegli notturni sono frequenti: il 10-15% dei bambini ne soffre, fin dai primi giorni di vita. Le cause del pianto durante il sonno o del resistere al dormire sono molte. Bisogna però sapere che tutti i bambini si svegliano parecchie volte di notte, specie nel primo anno di vita, ma la maggior parte si riaddormenta da sola. Quelli che si svegliano, fanno i capricci e non si vogliono riaddormentare, possono avere problemi di alimentazione, oppure soffrono di ansia da separazione, oppure hanno genitori troppo apprensivi.

L'attaccamento

Con il termine attaccamento si definisce la relazione che il bambino ha, sin dai primi momenti di vita, con il caregiver (cioè colui che si prende cura di lui, generalmente la madre). Questa particolare relazione permette al bambino di crescere contando sulla protezione da parte della madre e potendo a sua volta sperimentare il mondo circostante.

Se si osserva un bambino di due anni al parco con la madre si potrà assistere a una scena come questa: il bambino corre, ogni tanto si ferma e dirige il suo sguardo verso la madre oppure torna vicino a lei, e successivamente continua a esplorare ciò che lo circonda. Solitamente il bambino non si allontana più di 60 metri dalla madre. Il bambino che esplora l'ambiente intorno a lui utilizza la madre come una “base sicura” alla quale torna periodicamente per essere rinfrancato. Questo ritorno alla madre è uno degli indici che vi è un attaccamento. Alcuni psicologi hanno evidenziato differenti fasi nel processo di attaccamento che ha inizio dalla nascita e si evolve per tutto l'arco della nostra vita.

La prima fase avviene nei primi mesi di vita del bambino: il neonato si orienta verso gli altri e produce dei segnali senza discriminare fra persone differenti.

La seconda fase risale circa ai 5-7 mesi di età: il neonato si orienta e produce segnali verso una o più persone specifiche. Questo comportamento contrassegna l'inizio di una relazione specifica di attaccamento.

La terza fase avviene fra i 7 e i 9 mesi: il bambino mantiene un contatto privilegiato con alcune persone e protesta nel caso avvenga una separazione. Diventa diffidente e pauroso nei confronti di chi non conosce (paura dell'estraneo).

Quarta fase, dai tre anni circa. Fra il bambino e chi se ne prende cura si crea un rapporto reciproco: fino a questo momento la madre si è adattata ai bisogni del bambino, ora anche quest'ultimo comincia ad adattarsi ai bisogni della madre.

Nella quinta fase, che si sviluppa nell'età scolare, il bambino ricerca meno la vicinanza con la madre perché ha fatto proprie le idee di affetto, di fiducia; non è più necessario che la madre sia presente fisicamente vicino a lui in quanto la può pensare e sentire dentro di sé.

Lo sviluppo del linguaggio

Lo sviluppo linguistico sembra procedere in modo similare in tutte le società umane; i bambini giungono a padroneggiare le regole dei suoni (fonologia), della grammatica (sintassi) e del significato (semantica) ed imparano a combinare le parole fra loro in modo comprensibile per la comunità a cui appartengono (pragmatica).

Il pianto, sin dai primi momenti dalla nascita, è un richiamo infallibile che il bambino mette in atto per attirare su di sé l'attenzione del genitore. Il pianto non può essere propriamente detto un elemento linguistico, ma è un fondamentale strumento di comunicazione, uno dei primi che viene utilizzato. A circa un mese il bambino comincia a pronunciare dei suoni come “oooo” che spesso è collegato a interazioni piacevoli, soprattutto a dialoghi che avvengono durante il bagnetto o il cambio del pannolino. La madre in questo periodo cerca di incentivare un dialogo reciproco che sarà alla base del successivo sviluppo della comunicazione e del linguaggio.

Dai 6-9 mesi il bambino non si limita più al grido e ai vocalizzi, ma produce un numero maggiore di suoni vocalici e anche qualche consonante. In questo periodo compare l'ecolalia cioè la ripetizione frequente di suoni (bababa, mamama...). Se si è attenti si noterà che anche quando il bimbo è solo si esercita nella produzione di suoni. Certi suoni o gesti, già in questo periodo, sono riservati alla madre o comunque a chi si prende cura del bimbo.

Un certo suono può considerarsi una parola se il bambino lo associa ad un oggetto preciso o una situazione, ciò deve avvenire in modo stabile. I bambini esprimono con una sola parola un concetto più ampio che normalmente viene espresso in una frase: queste parole vengono definite “olofrasi”. Una volta comparse queste parole possano passare anche 3-4 mesi prima che il vocabolario si arricchisca in modo consistente. A 18 mesi, in genere, si padroneggiano 20 parole, a 21 mesi si passa a 200.

A circa 18 mesi il bambino inizia a comporre farsi di due parole. Le parole singole continuano ad essere usate, ma vengono via via sostituite da costrutti più complessi. Le prime frasi vengono definite “linguaggio telegrafico” cioè frasi in cui il significato è molto condensato. Un esempio può essere “latte Mario” che significa “dammi un po' di latte”.

A 24-27 mesi il bambino pronuncia frasi di tre o quattro parole, anche se la grammatica risulta ancora poco corretta. Frasi del tipo “labbri rossi” e non labbra rosse dimostrano però che il bambino tenta di applicare le regole grammaticali normali. Dopo lo stadio delle 3-4 parole, l'uso della grammatica diventa migliore. Ora il bambino inizia anche a ordinare le parole in modo corretto.

Il linguaggio di un bimbo di 3 anni è in massima parte comprensibile a tutti gli adulti. Il vocabolario consta di circa 1000 parole.

Infanzia

La fobia scolare

La fobia della scuola o scolare è stata riconosciuta negli anni sessanta, ma solo negli ultimi decenni viene considerata come possibile causa quando si è in presenza di un bambino o di un adolescente che mostra gravi segni di ansia e stress al solo pensiero di andare a scuola.

Quando non si tratta di semplice negligenza, ma di una vera fobia, ogni tentativo di convincere il bambino o l'adolescente ad andare a scuola porta a reazioni estreme, come pianti dirotti, scatti d'ira, urla, calci, ecc. E' un'esperienza di grande ansia a turbamento, che conduce poi spesso alla depressione. Anche i genitori, in questi, casi si sentono impotenti e non sanno come risolvere il problema.

I ragazzi che soffrono di questa fobia in genere sono bravi ragazzi, amano studiare, si comportano in modo educato e di solito provengono da famiglie che si prendono abbastanza cura di loro. Se marinano la scuola, non lo fanno certamente per mettere in atto dei comportamenti di microcriminalità o per disinteresse, quanto per fuggire da una situazione per loro estremamente ansiogena.

L'età di insorgenza per la fobia scolare è quella che va dai 6 ai 14 anni; non ci sono numeri precisi, ma si stima che circa un bambino/ragazzo ogni cento abbia questo problema. 

Cosa fare? L'importante è anzitutto rendersi conto se il rifiuto della scuola viene vissuto come una necessità, una soluzione ai propri problemi di paura, ansia e stress. Tra i bambini più piccoli, questa difficoltà si può presentare quando ad esempio vi è una forte ansia da separazione dai genitori, il terrore di essere lasciati soli.Tra i ragazzi più grandi, il fenomeno si manifesta in particolare dopo un trasferimento, un cambiamento di classe o di scuola, a causa della perdita dei propri punti di riferimento.

Occorre tuttavia fare attenzione e distinguere fra fobia e rifiuto. 

Un esempio tipico di rifiuto è quello dovuto alla gelosia per un nuovo nato in famiglia, cui vengono apparentemente riservate tutte le cure.Andare a scuola, in questo caso, potrebbe significare lasciare campo libero al "nemico". Seppure un vissuto di forte gelosia per un fratellino/sorellina sia comunque un'esperienza dolorosa e ansiogena, in questo caso è evidente che la causa del malessere non è la paura immotivata ed esagerata della scuola, ma una problematica esterna, che il bambino porta con sé a scuola.

I bambini/ragazzi  vanno  ascoltati, incoraggiati e supportati dalla famiglia, o anche da figure esterne, come quelle degli insegnanti o dello psicologo. La situazione dovrebbe essere portata al più presto in consultazione per evitare la perdita di molte giornate di scuola.

Regole e limiti

Nella società moderna la vita è frenetica e in continuo cambiamento. In questo contesto il ruolo del genitore risulta decisamente molto complicato. Spesso i genitori, a causa dei molti impegni lavorativi, riescono a passare del tempo con i propri figli solo alla sera e magari stanchissimi dopo una lunga giornata stressante. Il poco tempo porta spesso a evitare di sostenere delle dispute con i bambini, ma di lasciarli liberi di fare ciò che vogliono, magari tentando solo per qualche istante di dire di no.

I limiti sono dei confini oltre i quali non è consentito avventurarsi e che spesso riguardano la tutela dell’incolumità psico-fisica (ad esempio non avvicinarsi ad una pentola sul fuoco, non sporgersi da una finestra molto alta, ecc…). Le regole, invece, sono delle norme nell’agire che prescrivono come comportarsi. Non esistono delle regole che vadano bene per tutti e per tutte le famiglie. Le regole sono frutto della relazione fra i genitori e i propri figli. Cerchiamo di comprendere l’importanza di utilizzare le regole. Già quando il bambino è molto piccolo tenta di affermare la propria individualità pretendendo alcuni oggetti o di fare alcune azioni. A due anni è presente la cosiddetta “fase del no” in cui il bambino inizia a percepirsi come una persona a sé, diverso dal genitore e con dei propri bisogni e desideri. Questo fa emergere, però. nei bambini un insieme di emozioni, di energie, di sentimenti che non riescono a controllare, a gestire e di cui si sentono in balia. In questo contesto dare delle regole ai bambini significa fargli percepire l’adulto come un punto fermo, il quale darà al bambino una sorte di “recinto” entro cui stare e oltre al quale non può andare. Le emozioni forti del bambino vengono contenute dal “No” dell’adulto. In questo senso le regole assumono un ruolo di protezione, non solo nel senso che possono prevenire situazioni pericolose, ma forniscono al bambino la sensazione che l’adulto sia una “base sicura” cui riferirsi. Il No genera spesso rabbia e frustrazione nel bambino e anche nel genitore. E’ importante, nei casi in cui questa emozione sia piuttosto accesa, lasciare il bambino da solo in modo che possa “sbollire” o nel caso in cui sia l’adulto molto arrabbiato, che si rechi in un’altra stanza. Passata la prima fase di forte rabbia allora è importante ritornare a spiegare al bambino i motivi della regola e della rabbia generatasi: “la mamma o il papà si è arrabbiata/o perché…..e mi sono sentito così….”. I bambini piccoli (fino ai 5 anni circa) non riescono a collegare ciò che sentono dentro alla parola giusta (“mi sento così allora questa è rabbia/felicità….). Se noi come adulti gli spieghiamo come stiamo dentro e quali sono i “sintomi” di quella emozioni, aiutiamo i bambini sia a collegare le emozioni e le parole sia a legittimare ciò che provano. Inoltre, il bambino sperimenterà il fatto di essere riuscito a sopportare la rabbia e la frustrazione e questo è un apprendimento che gli servirà per tutta la vita. L’inserimento all’asilo e la socialità con i pari rappresentano un momento importante per il bambino che però, se privo di regole, faticherà ad integrarsi e a fruire degli elementi positivi del gruppo.

Aspetti fondamentali sono:

• le regole e lo stile educativo devono essere concordati da entrambi i genitori e messi in pratica da entrambi.

• Le regole devono essere decise dai genitori e non dal bambino altrimenti egli sarebbe caricato di troppe responsabilità

• Le regole devono essere dei punti fermi perciò devono essere stabili e non cambiate troppo di frequente

• Le regole devono essere basate sull’età e sullo sviluppo psico-fisico del bambino

Spesso le famiglie faticano da sole a comprendere le dinamiche che si sviluppano al loro interno e rimangono imbrigliate in rapporti difficili fra i genitori stessi (in alcuni casi colpevolizzandosi a vicenda) o fra genitori e figli. In questi casi, sarebbe consigliabile, in modo tempestivo, rivolgersi allo psicologo che potrà aiutare i genitori a riflettere sul proprio stile educativo ed eventualmente a intraprendere un percorso di sostegno alla genitorialità. In altri casi, dopo aver valutato la situazione con i genitori, è possibile fare dei colloqui con il bambino per comprendere le sue difficoltà. Se il professionista lo riterrà opportuno si potrà intraprendere un percorso di sostegno o di psicoterapia anche con il bambino.

Adolescenza

L’adolescente e il gruppo

Il gruppo si costituisce nell’adolescenza come uno spazio di confronto e rispecchiamento, con sue regole specifiche spesso in opposizione a quelle del mondo degli adulti.

Possiamo idealmente suddividere in due fasi il modo di relazionarsi con il gruppo da parte dell’adolescente.
All’incirca tra gli 10 e 14 anni, si vede la costruzione di gruppi di coetanei dello stesso sesso; il gruppo rappresenta per il ragazzo lo specchio di sé. Egli si identifica nel gruppo e il gruppo rappresenta la proiezione di quello che sente di essere. L’essere parte del gruppo aiuta a superare le angosce relative alla propria identità sessuale attraverso una chiara distinzione dei sessi. All’altro gruppo, costituito da individui di sesso opposto, si tende ad attribuire caratteristiche negative o indesiderabili, quasi con atteggiamento paranoide.

Con il passare del tempo esso si modifica in un gruppo adolescenziale "eterosessuale". Si tratta generalmente di un gruppo in cui ognuno si sente libero di esprimere anche alcuni aspetti caratteristici della propria personalità perché comunque condivide con gli altri dei valori comuni e aggreganti. Il gruppo rappresenta un elemento molto importante nella vita di un giovane, e può succedere che davanti ad un rifiuto subito, il ragazzo possa sentirsi poco accettato all’interno del gruppo di pari e sviluppare disagi e disturbi più o meno seri che potrebbero portare a stati d’ansia o depressivi.

Il periodo adolescenziale è caratterizzato dalla ricerca, dalla sperimentazione e dalla formazione di propri valori; esso può essere ricco di conquiste ma anche di imprevisti. E' molto importante che i genitori assumano una funzione vigilante ma non oppressiva, tutelando comunque il rispetto delle regole familiari seppur adattate al momento di transizione dei propri figli. Spesso, tanto per i genitori, quanto per i figli, non è semplice riuscire a comunicare in questa fase di grandi cambiamenti e, molto frequentemente, il clima familiare è saturo di tensione e conflittualità da cui sembra difficile uscire. In questi casi, soprattutto se sono presenti dei comportamenti che destano preoccupazione, richiedere una consulenza a uno psicologo potrebbe risultare molto vantaggioso per arrivare a una migliore comprensione del disagio e studiare insieme strategie di soluzione.

Adolescenza: cambiamenti e criticità

L’adolescenza è un periodo di passaggio che è determinato da molti cambiamenti: fisici, psicologici e sociali. I ragazzi (attualmente in maniera piuttosto precoce) esplorano un nuovo mondo sia dentro di loro che all’esterno. Il gruppo di pari diviene il riferimento principale e iniziano dei rapporti più complessi con i genitori. Queste importanti trasformazioni psicofisiche possono compromettere gli equilibri pre-esistenti nel sistema familiare: un figlio sereno, ubbidiente, socievole, con un buon rendimento scolastico può diventare aggressivo, insofferente, solitario, prepotente, non riconoscere ed accettare più le regole. Ciò determina nei genitori un grosso disorientamento che in alcuni casi arriva fino alla sensazione di non riconoscere più il proprio figlio. I cambiamenti, quindi, non si presentano solo nell’adolescente, ma anche nei genitori e ancor più nella relazione fra loro. I genitori devono modificare l’investimento che fino a quel momento avevano sul figlio e tentare di modificare le modalità interattive, educative e comunicative con il figlio. Quando l’ansia diventa eccessiva ed i livelli di tensione sono significativamente elevati possono manifestarsi diversi sintomi. Negli adolescenti possono emergere instabilità dell’umore, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione, disturbi d’ansia, sensi di colpa, autosvalutazione, sensazione di non essere capito, disturbi dell’attenzione e della concentrazione, predisposizione agli incidenti, ritiro emotivo, uso/abuso di droghe o alcool, ecc…
Allo stesso tempo anche nei genitori possono emergere sintomi, in alcuni casi simili, depressione, ansia e forte preoccupazione, senso di impotenza, difficoltà a relazionarsi con il figlio, sensazione di sbagliare sempre, ecc… La situazione può divenire difficile da sostenere per  i genitori, ma anche per l’adolescente. Entrambi cercheranno di trovare una situazione maggiormente equilibrata che, però, spesso si basa sulla volontà di ricostituire la condizione passata, vissuta come ricca di benessere e tranquillità. Questi tentativi risultano fallimentari in quanto non è possibile ricostituire la situazione passata in quanto sono cambiati i presupposti su cui si va ad agire. Nella ricerca di soluzioni ai problemi emergenti tutti i protagonisti cercano di agire per raggiungere il benessere. I comportamenti “strani” (in quanto diversi da quelli agiti fino ad allora) del figlio adolescente rappresentano, infatti, un tentativo del ragazzo di porre fine a stati di tensione generati dai processi di crescita sia a livello fisico e sessuale, sia di ordine socio-culturale. 
Le soluzioni messe in atto dal sistema familiare per risolvere le tensioni tendono principalmente a contrastare i comportamenti “anomali”, ossia non più riconoscibili ed accettabili dei figli.
Questa modalità ha però l’effetto di incrementare conflitti e inquietudini. 
Il rischio principale in questo processo di ricostituzione di una condizione di benessere originario è quello di non rendersi conto dell’inefficacia delle soluzioni adottate e dell’impossibilità di ritornare a una condizione di equilibrio ormai passata. 
La ricerca di uno stato di equilibrio perduto può portare a mettere in atto comportamenti rigidi  che possono anche distaccarsi dalla realtà della situazione attuale. Ciò può determinare una nuova modalità interattiva che risulta, però, essere disfunzionale e divenire rigida e potenzialmente può mettere a rischio la salute psico-fisica di uno o più componenti della famiglia e, in alcuni casi, dell'intero sistema familiare.
E’ importante richiedere un intervento psicologico tempestivo in quanto un sistema familiare che si basa su modalità disfunzionali, protratte nel tempo, può generare una situazione a rischio patologico. L’intervento dello psicologo ha come obiettivo il benessere psicologico dell’adolescente, ma anche il benessere dei genitori. Il professionista solitamente procederà attraverso alcuni colloqui con i genitori per comprendere e analizzare la situazione e successivamente valuterà se continuare a lavorare con i genitori, con l’adolescente o con l’intera famiglia.  

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